Quattro mosse per integrare risorse, energie ed esperienze, generando valore nelle percezioni del cliente
(scritto con Pino Casamassima)
Nel corso degli anni Settanta si sviluppò in Italia un vivace dibattito sulle cosiddette due culture – la umanistica e la scientifica – che generò anche un libro, edito da Einaudi, che perimetrava i contorni di questa dicotomia culturale. Una dicotomia rappresentativa di una società che andava – correva – verso la iperspecializzazione, con la cultura scientifica a ritenersi sempre più primus inter pares. Questo percorso alla fine produsse centurie di professionisti iperspecializzati nella loro nicchia “di mestiere” ma del tutto incapaci di allargare il loro raggio culturale nemmeno nell’ambito della loro formazione di base. Crebbero così ingegneri meccanici incapaci non solo di discutere di letteratura italiana, ma perfino di ingegneria edile, chimici non solo incapaci di argomentare in campo architettonico, ma nemmeno in ambito biologico, per non parlare dei medici che – dismesso il camice del “generico” di famiglia, «buono per ogni problema», anche di carattere psicologico – divennero smistatori per gli “specialisti” e spacciatori di prescrizioni, nonché di ricette. Che fare? Di seguito, indichiamo 4 punti coi quali deve confrontarsi l’azienda moderna.
1. La fabbrica degli specialisti. La società nata alla fine degli anni Sessanta era “spaccata a metà fra cultura umanistica e cultura scientifica, ed ebbe il suo nucleo “naturale” di gestazione nella scuola, che divenne quindi la fabbrica degli iperspecialisti.
Le aziende, che in quei periodi si confrontavano con mercati ancora immaturi o emergenti (in cui era spesso sufficiente assicurare la propria presenza in termini quantitativi per ottenere margini di resa anche molto consistenti), credettero di trovare nella figura dell’iperspecialista l’elemento centrale di una crescita centrata sull’iperspecializzazione, all’insegna dello slogan «ciò che conta è produrre». Una strada scivolosa che non considerava né le dinamiche interne a un mercato sempre in evoluzione (sempre più affollato in termini di competizione), né quelle esterne, rappresentate da paesi emergenti destinati a una produzione da Pil a due cifre: un percorso inizialmente sottotraccia, invisibile a chi aveva una visione offuscata dalla iperspecializzazione e dalla totale mancanza di una figura che all’interno dell’azienda riuscisse a intercettare sociologicamente i cambiamenti della società. In una parola, mancò l’umanista. Ciò finì col produrre una società parziale, monca; una società che a livello aziendale ha prodotto guasti riversatisi poi sulla stessa produzione. In definitiva, nel corso dei decenni successivi, abbiamo assistito al proliferare nelle imprese di figure professionali incapaci di guardare oltre il proprio naso, incapaci di relazionarsi con i colleghi e, spesso, con l’esterno, tanto da far germogliare sempre più la gramigna della cattiva comunicazione sia interna che esterna (a discapito della produzione, e quindi del profitto).
2. Il contesto globale. In un mercato globale sempre più complesso, maturo e selettivo è quindi suicida fossilizzarsi sulla produzione, perché mercati sempre più larghi, oltre che più maturi e selettivi, pretendono qualità, flessibilità, servizio, competitività. Di conseguenza, le aziende devono porsi nella prospettiva di operare sulla base di un unico concetto chiave: quello di creare valore aggiunto nelle percezioni del cliente nell’ottica del doppio profilo economico e sociale. Questa filosofia aziendale non può essere gestita da figure iperspecializzate (isolate rispetto al resto del contesto aziendale e spesso inconsapevoli della complessità delle molteplici dinamiche con cui l’azienda deve confrontarsi), ma da un professionista della comunicazione (dotato di cultura umanistica/sociologica): una efficace comunicazione (interna ed esterna) assumerà di conseguenza un valore chiave nello sviluppo aziendale.
3. La comunicazione. All’interno delle aziende, spesso la comunicazione è affidata a persone prive di specifica preparazione: proprio la “finestra sul mondo” della propria attività è stata la più trascurata, proiettando all’esterno un’immagine falsata. Bizzarramente, proprio la comunicazione non ha obbedito alle ferree leggi della iperspecializzazione! Eppure, basterebbe imparare dal mondo della politica! Basterebbe sfogliare la storia per rendersi conto di quanto sia importante la comunicazione! Basterebbe cioè imitare quel mondo per ottimizzare i propri profitti! E invece, le aziende si affidano in modo spesso casereccio a improvvisati della comunicazione: un esempio clamoroso è rappresentato da un episodio imbarazzante che ha coinvolto un noto operatore telefonico. È successo che un “manager” della suddetta grande azienda, per galvanizzare la platea plaudente, ha citato la battaglia di Waterloo come «il capolavoro di Napoleone». Capolavoro di sconfitta, ma lo sciagurato non sapeva. Probabilmente, lo sciagurato era entrato in azienda vantando il pedigree di un master di marketing (che però non prevedeva la storia).
4. La persona di cultura. La selvaggia crisi economica degli ultimi anni ha stimolato l’iniziativa, generando qualcosa di nuovo e positivo nel campo delle relazioni. È avanzata così la necessità di nuove idee, di creare, di innovare (che, in concreti termini aziendali, vuol dire stimolare investimenti, incoraggiare gli acquisti). La consapevolezza di questa nuova filosofia produttiva si sta diffondendo sempre di più in aziende piccole, medie e grandi, “costringendo” a un salutare confronto interno, capace di generare competitività su mercati sempre più agguerriti perché globalizzati. Al centro di questa new age produttiva torna dunque a primeggiare – come nei migliori tempi antichi – la figura della persona di cultura (la cosiddetta “Cultura generale” che svetta come importanza – e come vero e proprio incubo – fra i testi d’ingresso alle facoltà universitarie). Ciò si traduce in una gestione aziendale più accorta e produttiva per imprese che vogliano far affidamento non su robotiche figure monospecializzate, ma su uomini capaci di interagire “culturalmente” sia con l’interno sia con l’esterno. In definitiva, sull’umanista: l’unico attore in grado di sintetizzare le culture dei singoli colleghi della produzione, esternalizzando al meglio le peculiarità dell’azienda stessa.
Concludiamo ricordando che proprio la cultura umanistica, attingendo a piene mani dalla storia, può fornire concretamente spunti tattici e strategici utilissimi non solo a comprendere meglio le complessità della realtà economica e sociale con le quali le aziende si misurano nel quotidiano, ma anche a prevedere e contribuire a dar forma alle dinamiche del futuro.