I buoni propositi per il 2014… Un ottimo proposito dal passato, sempre attivo!!!

Mi piace inserire nel blog un articolo che ho scritto quasi 10 anni fa per la rivista Persone&Conoscenze (numero di Settembre 2004) perché mi ha dato una nuova spinta per confrontarmi con il nuovo anno e ancora una volta mi fa rendere conto che certe fondamenta su cui costruire non le sgretola mai niente e nessuno, anzi si fanno sempre più forti con il peso di tante esperienze in giro per il mondo.

Rimboccarsi le maniche e ripartire da zero.

Lavorare e poi laurearsi ma solo per divenire uno studente permanente…

 L’esperienza di un italiano che ha trovato la propria identità professionale frequentando un’università americana. Professionalmente si cresce in fretta quando ci si cala nella pratica con determinazione; quando si ha l’opportunità di essere costantemente messi alla prova; quando si riscontrano risultati positivi e si ha l’umiltà di riconoscere ed imparare dagli errori commessi. Ma si cresce, anche, acquisendo strumenti e modelli sociologici e psicologici e antropologici. Purchè si tratti di strumenti e di modelli che partono dalla pratica per ritornare alla pratica. Nozioni, idee e riflessioni servono a poco se non si ha la capacità e l’umiltà di utilizzarle con lo spirito della continua ricerca.

Nel 2004 la mia prima vittoria in kart dopo 20 anni che avevo smesso di gareggiare ;)
Nel 2004 la mia prima vittoria in kart dopo 20 anni che avevo smesso di gareggiare 😉

Nel posto giusto al momento giusto

Ripartire da zero a ventiquattro anni. Qua in Italia spesso a questa età si frequentano ancora corsi universitari o si è ancora in cerca di un lavoro vero nel quale ci si senta realizzati. Io avevo già aperto e chiuso capitoli di vita su entrambi i fronti.

All’università avevo dato svogliatamente un esame, utilizzando qualche ora di permesso dall’ufficio, senza il minimo di preparazione. In fondo i 60/60 del diploma di Ragioniere dovevano essere più che sufficienti per superare decorosamente Ragioneria 1 (si chiamava così?). La prova orale era stata quella più interessante, non tanto per i contenuti, ne per come si era svolta; ma per l’osservazione che il Professore aveva fatto in modo diretto e guardandomi negli occhi: “Paterni, ma lei che fa,… lavora?” . Probabilmente la domanda era sorta spontanea notando il modo istintivo e pratico con il quale mi calavo nella risoluzione di problemi. “Si” era stata la mia colpevole risposta. “Penso per il suo bene che debba scegliere, o una strada o l’altra; le va bene un 23?” “Benissimo, la mia scelta l’ho già fatta. Mi serve il timbro sul libretto per consegnare il tutto in segreteria e ritirare il mio diploma”. “Buona fortuna”. Il primo capitolo era chiuso.

Il capitolo lavorativo avevo proprio avuto la fortuna di aprirlo a pochi mesi dal diploma. Era stato quasi per gioco. Ricordo ancora i primi giorni in ufficio ad archiviare corrispondenza dei clienti e imbustare fatture. Fino a pochi giorni prima il mio mondo era circoscritto alla realtà di provincia Toscana, anzi alla realtà di campagna, ora mi trovavo a toccare un foglio che avrebbe raggiunto il Giappone! Che emozione! Entrare al momento giusto nel posto giusto in un’azienda di produzione meccanica in forte espansione a livello mondiale. Ufficio “Concli” (contabilità clienti); spazio per lavorare, inventare, scoprire l’emergente mondo del PC. Lotus 1-2-3 il foglio elettronico. Che divertimento! A ventitre anni il primo volo in aereo. Destinazione: USA. Missione:contribuire a organizzare meglio i legami amministrativi e finanziari fra casa madre e le filiali americane magari riuscendo anche a capire come funziona il sistema amministrativo americano.

 

Un mondo nuovo

Un mondo nuovo, una lingua straniera che progressivamente mi entrava in testa. All’inizio era dura: “Ma come parlano questi americani? Sembra che abbiano costantemente una patata bollente in bocca!” Cose insolite che mi facevano sorridere, riflettere, maturare come persona e professionalmente: “Ma quanto caffè bevono? Sempre con quella tazza in mano! Ma è caffè o acqua sporca?” “Mamma mia quante storie per essere arrivato un po’ troppo veloce nel parcheggio! Mica è colpa mia se questi pneumatici americani fischiano da soli!” “La finanza che preannuncia un normale controllo di routine inviando una lettera tre settimane prima… e indicano pure cosa vogliono controllare! Incredibile!!!” “Il venerdì è casual day: i jeans sono consigliati e si raccomandano i colori della locale e famosissima squadra di football! Passi per i jeans ma di magliette o maglioni verde e oro non se ne parla proprio!…”.

Ancora voli con l’aereo; passare in tre o quattro ore da una temperatura polare sotto un cielo grigio e un paesaggio imbiancato dalla neve, ad un sole tropicale splendente con i vestiti che ti si appicicano addosso per l’umidità. Cercare di calarsi nel sistema di contabilità americano: “Sarà, ma qua il sistema mi sembra più diretto e pratico rispetto al nostro!”. Pochi mesi, molto intensi, vissuti con la consapevolezza di dover imparare alla svelta confrontandomi con persone e situazioni molto distanti rispetto alla tranquilla vita di campagna. “Le cose in teoria sembrano sempre più facili rispetto alla pratica”. Professionalmente si cresce in fretta quando ci si cala nella pratica con determinazione; si ha l’opportunità di essere costantemente messi alla prova; si riscontrano risultati positivi e si ha l’umiltà di riconoscere ed imparare dagli errori commessi. Avevo anche la fortuna di essermi ritrovato la strada aperta da un collega che aveva passato vari mesi nello stesso ruolo. La grinta non mi è mai mancata e il fatto di sentirmi appoggiato dalla direzione italiana a volte mi portava a “peccare” in mancanza di umiltà. Ma il tutto faceva parte del gioco.

Mi trovavo sempre più stimolato dall’osservare e riflettere su dinamiche di lavoro, sui rapporti umani, le differenze culturali facilitavano tutto questo processo di apprendimento. Cambiamenti manageriali, già in corso alla mia partenza dall’Italia, iniziano a produrre i loro effetti: devo rientrare in Italia. Il tutto fa parte di un progetto più ampio di riorganizzazione dell’area contabilità clienti e finanziaria. Nonostante comprenda certe dinamiche e senta il mio diretto superiore vicino, di colpo mi sento un numero. Anzi, dei numeri inizio ad averne abbastanza. Non ho stimoli nel ragionare su “pronti contro termine” , swaps ecc. o forse sento di non avere le capacità giuste; in ogni caso il tutto diventa per me noioso e ripetitivo. Sono sempre più distratto e commetto errori sciocchi. Ho la sensazione che il mio destino lavorativo sia solido e sicuro ma troppo in mano a volontà altrui su logiche che non posso controllare. Per cercare di capire quello che avviene attorno a me inizio a leggere qualche libro, qualche articolo di psicologia e sociologia. “Interessante, ecco il perché di certi comportamenti e certe mie reazioni… quanto c’è da imparare! E’ l’ora di cambiare. Basta! Voglio tornare a sentire l’energia, la curiosità, la forza che ho sempre avuto. Voglio approfondire questi temi a livello universitario. No! Non in Italia! “. Questo chiude anche il secondo capitolo di vita aprendone uno nuovo, sicuramente quello più interessante perché caratterizzato da un senso di avventura al limite dell’inconsapevole incoscienza… quell’incoscienza indispensabile per iniziare un viaggio unico, irripetibile e lunghissimo: la conoscenza di se stessi.

 

L’università Made in USA

Mi sono dilungato nel parlare di questi due capitoli di vita, prima di introdurre quello riguardante il tema centrale di questo articolo, perché il mio modo di vivere l’università è stato molto legato alle esperienze professionali e di vita precedenti. La mia motivazione nello studiare non veniva certamente dal bisogno di un pezzo di carta per iniziare un percorso di carriera remunerativo e di soddisfazione (in teoria per questo avevo già avuto la fortuna di trovarmi nel posto giusto al momento giusto, bastava avere pazienza e saper attendere – la pazienza è merce rara quando si ha poco più di venti anni…). Volevo semplicemente capire, conoscere, esplorare, mettermi in discussione sotto tanti punti di vista. L’esperienza aziendale mi aveva aperto mondi e prospettive per me fino a quel momento del tutto sconosciute. Volevo conoscere il mondo aziendale in una dimensione a mio parere più ricca e interessante di semplici numeri. Soprattutto volevo iniziare un percorso di vita che mi portasse ad avere stimoli continui di apprendimento, di confronto, di iniziativa e creatività. L’esperienza universitaria in America effettivamente mi ha dato tutto questo.

Ho scelto l’università da frequentare principalmente sulla base di due criteri: la conoscenza della città (una cittadina industriale del mid-west americano dove avevo già trascorso alcuni mesi) e la possibilità di seguire un programma di studi ‘su misura’. Mi spiego meglio: intendevo comprendere come funzionano le aziende non dalla prospettiva del programma classico di Business Administration ma da quella della psicologia e della sociologia. Questo non per diventare uno psicologo o un sociologo; semplicemente per acquisire punti di vista, prospettive, tecniche, strumenti che mi avessero permesso di comprendere meglio un mondo che, con l’esperienza diretta, mi era parso meno lineare e prevedibile rispetto alla partita doppia o ai mercati finanziari: quello dei rapporti umani in un contesto produttivo.

“Interessante, è possibile. Sarà necessario lavorare con tre facoltà: business management; psicologia e cambiamento e sviluppo sociale. E’ però indispensabile fornire delle motivazioni concrete per questa scelta e ottenere l’approvazione di un’apposita commissione interdisciplinare”. Il tono suadente e amichevole del ‘career counselor’ presente in campus mi piaceva. Aveva un sorrisetto strano, un po’ malefico, fra il divertito e il sarcastico, che in italiano mi si traduceva in testa: “Tu guarda questo! Come si vuole complicare la vita!”. Fra le tante esagerazioni e ‘americanate’, ci sono due espressioni che ho subito apprezzato del mondo universitario Made in USA: “è interdisciplinare” ed “è possibile”. Sono due espressioni che hanno contribuito a chiarirmi quello che volevo fare e soprattutto mi hanno concesso di passare dal confortevole mondo delle idee al mondo più scomodo, ma molto più appagante, della loro realizzazione pratica. In America andare all’università costa parecchio, al tempo stesso si ha l’impressione di investire i soldi, non di buttarli al vento.

Tutt’oggi associo l’esperienza che ho vissuto ad un senso di organizzazione, una logica di gestione e soprattutto un rapporto schietto, diretto e costruttivamente informale con i professori; questo anche per i corsi ‘generici’ iniziali ai quali partecipano contemporaneamente anche cento o duecento studenti. Poi, selettivamente, il numero dei partecipanti per classe si riduce, ognuno prende la sua strada (parecchi prendono anzitempo la strada dell’uscita per non rientrare mai più) e ci si trova in classi di venti trenta persone con le quali tipicamente si condividono interessi accademici. Beh, devo ammettere che spesso in alcune di queste sessioni mi sentivo un po’ come il classico pesce fuor d’acqua: nei corsi avanzati di psicologia, sociologia e soprattutto cambiamento e sviluppo sociale da una prospettiva storica e politica mi trovavo in netta minoranza. Cosa ci faceva un “venduto al capitalismo” in una classe coordinata da un eccellente professore celebre per le sue ricerche ed i suoi scritti sulla tradizione marxista?

Era interessantissimo studiare e realizzare progetti in gruppi di lavoro composti soprattutto da futuri assistenti sociali, psicanalisti, psicoterapeuti, storici o antropologi. Spesso e volentieri finivo per coordinare il nostro gruppo di lavoro composto da quattro, massimo cinque persone (purtroppo le mie precedenti esperienze professionali mi portavano a concentrarmi su due parole che spesso frustravano le interessantissime divagazioni dei miei colleghi: efficienza ed efficacia. Per questo spesso finivo per trovarmi a coordinare il gruppo, in fondo le dinamiche erano quelle aziendali: risorse limitate e scadenze fisse.). Sviluppavamo due o tre progetti di ricerca per semestre; ricerche che poi dovevamo presentare formalmente, con tanto di feedback schietto e immediato da parte dell’audience, ai nostri stessi colleghi. Interessanti erano anche i ‘materiali’ di studio: al classico libro di testo del professore di turno si aggiungevano altri testi, spesso con prospettive diametralmente opposte, e soprattutto eravamo invitati ad arricchire i frequenti dibattiti in aula con temi di attualità tratti da giornali e riviste più o meno specializzate. Erano frequenti anche gli interventi da parte di personaggio autorevoli sul tema specifico o di ex studenti ormai avviati ad una brillante carriera.

 

Studente

Studiavo a ‘tempo pieno’, seguendo un sistema di crediti simile a quello recentemente introdotto in Italia. Nel corso dei tre anni e mezzo investiti nel laurearmi credo di aver notevolmente migliorato soprattutto la mia identità di studente. Così avevo anche modo di lavorare attorno alle 35 ore settimanali. Un tempo, studiare per me un tempo significava assorbire quello che era necessario ricordare al fine di superare l’esame; semestre dopo semestre studiare è diventato una specie di lavoro in laboratorio: il laboratorio delle idee, delle riflessioni. Un laboratorio che mi sono creato in testa e che continuavo ad arricchire. All’inizio del terzo anno ho anche identificato il titolo da dare alla mia laurea: “Dynamics in Organizational Enviroments”. Erano state soprattutto le lezioni in cambiamento e sviluppo sociale a darmi lo spunto giusto. Alcuni dei corsi in quella facoltà sono stati per me una totale rivelazione. Per prima cosa, ho dovuto studiare parecchio da solo per portarmi al passo di quella formazione culturale classica che, chiaramente, non ho ricevuto nel corso dei cinque anni trascorsi all’Istituto Tecnico Commerciale. Ricordo ancora le chiacchierate appassionate con il professore a capo di quella facoltà. Sentivo maturare in me un senso di prospettiva storica e sociale; una prospettiva utilissima per dare un senso di vitalità alle trasformazioni delle dinamiche organizzative nel corso del tempo. Devo ammettere che con questo tipo di background corsi sulla struttura organizzativa, sul marketing o sul comportamento organizzativo sono stati per me facili da assimilare, anzi, a volte un po’ noiosi.

Spesso per chi aveva seguito il percorso tradizionale della facoltà di Business Administration comprendere le dinamiche reali presenti all’interno di una struttura organizzativa non era semplice. E’ facile fare teoria e parlare di struttura a matrice, metterla poi in pratica nei nostri gruppi di lavoro mostrava poi insidie che loro riconoscevano solo all’atto pratico. A me succedeva di prevedere certe dinamiche in anticipo, non perché fossi più intelligente (anzi, tutt’altro, prova ne sia che ho sempre ‘fatto a botte’ con la matematica, la fisica, la chimica e altri soggetti che io percepisco come più o meno astratti) semplicemente perché era diversa la mia prospettiva. Gli altri spesso si vedevano già manager di organizzazioni e guardavano i problemi dall’alto verso il basso; io ero rimasto affascinato dal concetto “from the bottom-up” (dal basso verso l’alto) che veniva associato a tanti movimenti storici di ideologia più o meno rivoluzionaria.

 

Studente permanente

Tutto questo, unito alle mie esperienze professionali, mi portava a calarmi nella situazione dalla prospettiva di chi il lavoro lo sviluppa in senso operativo e concreto. Ed è questa prospettiva che tutt’oggi stimola molto la mia professione di consulente e formatore. Mi aiuta a capire e far comprendere come riuscire a sbrogliare situazioni complesse, o riconoscere e sfruttare opportunità non così facilmente identificabili.

E’ proprio nel senso pratico, nella prospettiva schietta e concreta che io sono arrivato ad apprezzare lo stampo interdisciplinare che originariamente, devo ammetterlo, solo per istinto o testardaggine volevo dare alla mia carriera universitaria. Ed è grazie a professori che hanno avuto la pazienza e la costanza di assecondare questa mia testardaggine che sono, passo passo, riuscito a capire quello che effettivamente volevo raggiungere: diventare uno studente permanente. No, non come quelli che sono perennemente laureandi (relativamente diffusi anche in america), studente permanente nell’approccio alla vita e alla professione di consulente e formatore. Studente permanente nel metodo volto alla ricerca, all’associazione di idee; studente nell’umiltà di ‘rimboccarsi le maniche’ e a volte ripartire da zero mettendo in dubbio convinzioni che mi creo in testa e che mi rendo conto limitano le mie scelte, le mie possibilità di soluzione da un punto di vista professionale.

Nel mio ufficio attuale, nonostante sia un vorace utente di tecnologia informatica, c’è molta carta…molti libri. Persino un editore ha commentato che quei libri in giro erano troppi…in realtà continuo ad accumularli, leggerli per intero ed a pezzi, mischiarli, annotarli proprio perché la mia prospettiva è quella dello studente permanente. Ho notato che spesso riesco a stimolare a questo approccio anche imprenditori e manager con i quali collaboro. Non ci sono mai verità assolute, solo percezioni che servono o meno ad identificare, raggiungere, rivedere, raggiungere di nuovo, obiettivi organizzativi e produttivi. Uno dei tanti pezzi di carta, si trova incorniciato sulla parete dietro la mia scrivania: è la mia laurea “Summa Cum Laude”. Ecco, per me non è altro che uno dei tanti pezzi di carta, il cui valore è dato non dalle lunghe ore di studio ma dalla capacità con la quale riesco a confrontarmi con nuove problematiche ed opportunità a cui la mia identità professionale mi espone. In altre parole da come riesco a creare un tangibile valore aggiunto per imprenditori, manager, colleghi con i quali collaboro. Quel pezzo di carta non vale per ciò che so, ma per ciò che mi permette di sapere, per il bagaglio a mano di attrezzi da lavoro che ha formato in me permettendomi di utilizzarli nel momento che più ritengo opportuno; spesso dalla prospettiva “from the bottom up” alla quale mi sento così legato.

Proprio da questa prospettiva non conosco abbastanza il mondo universitario italiano per poter affermare che il percorso di crescita professionale che ho fatto negli USA non avrei potuto farlo anche in Italia. Posso solo osservare (unendomi ai commenti che sento fare da molti manager e imprenditori) che i neo-laureati italiani spesso, nonostante un forte senso di determinazione e volontà, peccano nel senso di praticità ed umiltà. A mio parere tutto questo avviene perché sia il sistema universitario che gli studenti sono portati a percepire quel pezzo di carta come un traguardo ed in realtà non si rendono conto (magari lo faranno poi a seguito di alcune esperienze lavorative dolorosamente rivelatrici) che in realtà tante nozioni, idee e riflessioni servono a poco se non si ha la capacità e l’umiltà di utilizzarle con lo spirito dello studente permanente. Attenzione! Non sto parlando dello stereotipato studente ‘secchione’, bravo perché ha un’ottima memoria; mi riferisco allo studente bravo perché aperto a mettersi continuamente in discussione con la sicurezza di riuscire a farcela proprio grazie a quelle basi, quegli spunti, quell’approccio alla ricerca, al comprendere, al risolvere, che dovrebbe aver acquisito negli anni universitari.

Siamo pronti a mettere quel pezzo di carta incorniciato in soffitta, ‘rimboccarci le maniche’ e prendere quel bagaglio a mano colmo di attrezzi da lavoro da lucidare e rinnovare costantemente?